Grecia, la strage Domenikon

Domenikon, Tessaglia( Grecia centrale), 15 settembre 2009.
Gianpaolo Scarante, ambasciatore italiano ad Atene, assiste alla commemorazione dell’eccidio commesso dalle truppe italiane d’occupazione il 16 febbraio 1943: furono uccisi 150 civili maschi, di età compresa fra i 15 e gli 80 anni,

E’ la prima volta che un rappresentante dell’Italia prende parte alla cerimonia, a cui partecipano alcuni dei parenti delle vittime insieme alle autorità civili e militari greche, ma la stampa italiana non dà quasi spazio alla notizia : Domenikon rimane una strage dimenticata.

Che cosa accadde il 16 febbraio 1943?

I partigiani greci avevano ucciso nove soldati italiani della brigata “Pinerolo”. Per dare a tutti una “salutare lezione”, il generale Cesare Benelli applicò le linee- guida che il generale Roatta aveva introdotto in Jugoslavia : nel pomeriggio del 16 febbraio, i soldati italiani prima circondarono il villaggio, poi radunarono gli abitanti nella piazza centrale.

Al tramonto, la popolazione venne condotta sulla curva da cui i partigiani avevano sparato contro gli italiani, le donne furono separate dai maschi sopra i 14 anni.

La notte del 17, uomini e ragazzi vennero fucilati nel giro di un’ora ; qualcuno, che era riuscito a nascondersi, venne sistematicamente cercato, scoperto e ucciso. In totale, 150 morti.

Questa strage segnò l’inizio di una serie di episodi repressivi ad opera del nostro esercito, repressioni su cui si rinunciò al indagare . Perché?

Nel dopoguerra, l’Europa era ormai divisa fra Urss e alleati, mentre la Grecia era in piena la guerra civile. Il governo italiano, anche su pressione anglo-americana, rinunciò a chiedere l’ estradizione e il processo per i crimini di guerra nazisti, e la Grecia si regolò allo stesso modo nei riguardi del nostro paese.

Domenikon, al contrario di Marzabotto, non è mai diventata parte della memoria collettiva.

Su Domenikon è stato girato un film “ La guerra sporca di Mussolini “ di Giovanni Donfrancesco, film trasmesso su History Channel il 14 marzo 2008.

Jugoslavia: due “no” italiani ai tedeschi

A guerra finita, il governo jugoslavo di Tito chiese la consegna di 750 presunti criminali di guerra italiani ( E.Gobetti, cit pag.164), ma la sua richiesta non intaccò il mito dell’ “occupazione allegra “, espressione dispregiativa ed elogiativa insieme, la cui persistenza è fondata anche sul confronto con l’occupazione dell’esercito del III Reich che, soprattutto in Serbia, mise in atto una pesantissima repressione: l’uccisione di 100 uomini per ogni soldato tedesco caduto.

Però lo storico Gobetti rileva che in qualche situazione ed area geografica ( non certo in Slovenia né in Montenegro, dove l’occupazione italiana fu molto dura ), la pratica quotidiana fu diversa : le nostre forze armate contribuirono al salvataggio sia della minoranza serba che degli ebrei .

Soldati italiani in Jugoslavia

Seconda Guera Mondiale. Un reggimento di fanteria italiana entra a Lubjana.

Vediamo il primo episodio: lo Stato Indipendente Croato, stato fantoccio sottoposto a Sud-est( Zagabia, Sarajevo) all’influenza tedesca, a sud ovest ( Dubronvik, Mostar) a quella italiana, aveva emanato leggi persecutorie contro gli ebrei ed i serbi.

Squadre di Ustasa deportavano i serbi, che erano il 30% della popolazione, nei campi di concentramento.

Nelle regioni periferiche, li costringevano all’emigrazione in massa o alla conversione forzata, mentre gli ufficiali italiani intervennero spesso a favore dei perseguitati , nascondendoli nelle caserme e/o favorendo la fuga di migliaia di loro verso Zara e Spalato, annesse all’Italia. Queste iniziative furono avallate solo in un secondo tempo dai vertici militari, mai da quelli politici e contribuirono a salvare migliaia di vite.

Inoltre, quando lo Stato Indipendente Croato iniziò i primi pogrom antiebraici, molti ebrei lì residenti, insieme a numerosi profughi provenienti dai territori già controllati dai nazisti, cercarono e trovarono rifugio nella Dalmazia italiana.

Nel corso del 1942 le autorità croate e tedesche chiesero al generale Roatta, ma senza successo, la consegna degli ebrei rifugiati ( nel 1943 la Seconda armata trasferì la maggior parte di loro in una sezione speciale del campo di concentramento di Arbe, dove sopravvissero fino al settembre 1943).

Per l’atteggiamento tenuto, tuttavia, il generale Roatta, considerato dal governo Jugoslavo fra i peggior criminali di guerra italiani, viene ricordato in Israele come uno dei pochi che protessero gli ebrei dall’annientamento.

Gobetti ipotizza che alla base di questi comportamenti ci fosse il desiderio di affermare l’autonomia delle forze armate italiane di fronte alla prepotenza dell’alleato tedesco, attraverso un gesto simbolico, che consentì, pur nel marasma complessivo, la salvezza di alcune centinaia di uomini e donne. Anche questo deve far parte della memoria storica.

FONTE belpaeselibri.it

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